Perché il cielo notturno è buio?

Le domande infantili sono le più belle. Molte di esse hanno una storia di secoli e, per ottenere una risposta, vanno a scomodare i più grandi pensatori. È anche il caso di questa domanda, semplice e apparentemente banale.

Il cielo di giorno è luminoso a causa della presenza dell’atmosfera che diffonde la luce solare in tutte le direzioni, ma… perché il cielo di notte è buio?

Il problema è noto come il paradosso di Olbers dal nome del un medico e astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers che nel 1838 la discusse e la rese popolare, mettendo in evidenza una profonda contraddizione tra ciò che si vede e ciò che si dovrebbe vedere.

Supponiamo che l’Universo sia infinitamente esteso e che le stelle siano omogeneamente sparpagliate per tutto lo spazio con la stessa densità di distribuzione. Se queste due affermazioni sono vere, il cielo dovrebbe abbagliarci a qualsiasi ora del giorno o della notte. Ai tempi di Olbers non si sapeva che le stelle sono raggruppate in galassie, ma anche in questo caso la correttezza del suo ragionamento non cambia: basta sostituire le stelle con le galassie.

Un simile bagliore sarebbe dovuto alla luce complessiva proveniente da tutte le stelle.

Se l’universo è infinito, Il cielo dovrebbe illuminarsi per la luce di tutte le sue stelle. (da wikimedia)

Per semplificare il problema immaginiamo due soli “gusci” di stelle: un primo guscio formato da tutte le stelle che distano circa 100 anni luce dalla Terra e un secondo guscio formato dalle stelle che distano 200 anni luce. Le stelle del secondo guscio ci appaiono meno luminose di quelle del primo perché sono più lontane. Per una legge fisica (Legge dell’inverso del quadrato), se una stella è due volte più lontana, la sua luminosità si riduce ad un quarto.

La luminosità di una sorgente diminuisce in ragione del  quadrato della sua distanza

La luminosità di una sorgente diminuisce in ragione del quadrato della sua distanza

D’altra parte però il guscio con raggio doppio è composto da un numero 4 volte superiore di stelle. È una semplice questione geometrica: se si raddoppia il raggio di una sfera, la sua superficie diventa quattro volte più grande. Ne consegue che la luce complessiva proveniente dalle stelle del primo guscio è uguale a quella proveniente dalle stelle del secondo. Sommiamo in questo modo la luce proveniente da una serie infinita di gusci via via più lontani ed estesi e… il cielo dovrebbe apparirci infinitamente luminoso!

Detto in altri termini, se esiste un infinito numero di stelle, in qualsiasi direzione volgiamo lo sguardo prima o poi dobbiamo incontrare almeno una stella, più o meno lontana e, più lontano si riesce a guardare, più stelle ci sono. Se le stelle fossero puntiformi il nostro ragionamento ci porterebbe ad affermare che il cielo dovrebbe essere infinitamente luminoso. Data la loro grande distanza le stelle ci appaiono puntiformi ma in realtà non lo sono. Perciò ogni stella nasconde la luce proveniente da… infinite altre stelle più lontane e allineate rispetto alla nostra linea di vista. Ma ciò non basta a spiegare il cielo buio: anche togliendo dalla somma la luce delle stelle nascoste da altre stelle, il cielo non avrebbe comunque spazi vuoti, sarebbe letteralmente tappezzato di superfici stellari. In conclusione, risplenderebbe come la superficie del tipo di stella più diffuso nell’Universo.  Ora sappiamo che il tipo di stella più diffuso è la nana rossa, almeno per quanto riguarda i dintorni del nostro Sistema Solare e si è stimato che almeno tre quarti delle stelle della nostra Galassia siano nane rosse. In conclusione, il cielo notturno dovrebbe emanare un intenso bagliore color rosso sangue!

Non solo, se così fosse, tutti i corpi dell’Universo dovrebbero essere alla stessa temperatura media della superficie delle nane rosse, cioè all’incirca 3000°K. In conclusione, un vero inferno!

Olbers risolse il suo paradosso sostenendo che l’Universo è ricco di nebulose opache che assorbono parte della luce proveniente dalle stelle più lontane. Purtroppo la sua soluzione conteneva un errore fondamentale: le nubi gassose sono oscure soltanto mentre si riscaldano, perché dalle stelle vicine assorbono più energia di quanta ne emettano, ma una volta raggiunto l’equilibrio termico, emettono energia in quantità pari a quella assorbita.

La storia di questo paradosso copre almeno mezzo millennio di pensiero scientifico e coinvolge l’evoluzione storica della nostra concezione dell’Universo. Vediamone alcuni aspetti.

Il primo ad avvicinarsi a questo problema fu Thomas Digges, matematico e astronomo inglese della seconda metà del Cinquecento. Digges era un convinto copernicano e anche sostenitore dell’idea che l’Universo fosse infinito e che le stelle fossero distribuite in tutto il suo spazio, senza limiti.

L’astronomo tedesco Giovanni Keplero, nel 1610, affrontò il problema del cielo buio e suggerì una “triste”  e non del tutto errata soluzione: l’Universo stellato ha un confine, si estende solo fino ad una certa distanza, e quando la linea di visuale oltrepassa quel confine, si incontra solo lo spazio vuoto. Ma quanto lontano si trova questo confine? E cosa c’è oltre ad esso?

Dopo Olbers, un ragionevole approccio scientifico al paradosso proviene imprevedibilmente dallo scrittore inglese Edgar Allan Poe nel suo libro “Eureka: A Prose Poem” (1848). Lo scrittore sostiene che, se l’Universo è infinito, l’unica causa possibile per il cielo buio è la limitata velocità della luce. La luce proveniente dalle stelle troppo lontane non è ancora arrivata a noi e quindi possiamo vedere solo una piccola parte dell’Universo. In qualsiasi direzione puntiamo un telescopio, incontreremo lo sfondo buio tra le stelle.

Alla fine, il paradosso di Olbers è stato risolto dalla più drammatica scoperta del Novecento: l’Universo è infinito nello spazio ma non nel tempo, esso ha avuto origine quasi 13,7 miliardi di anni fa con il Big Bang.

Le nostre osservazioni delle stelle e delle galassie sono da consideararsi come dei “viaggi nel tempo”: la luce proveniente dagli oggetti che osserviamo ha impiegato un certo tempo per giungere a noi. Ad esempio, una stella che dista cento anni luce non ci appare com’è attualmente ma com’era cento anni fa, quando la sua luce  iniziò il viaggio verso di noi.

Una lontana galassia distante tredici miliardi di anni luce ci mostra l’aspetto che essa aveva tredici miliardi di anni fa. E proprio in queste lontane periferie incontriamo il  limite delle nostre osservazioni: l’Universo è limitato, ha un raggio “temporale” e “osservativo” di soli 13,7 miliardi di anni luce. Le stelle e le galassie che possiamo osservare sono soltanto quelle la cui luce impiega meno di 13,7 miliardi di anni luce per giungere a noi. E’ questa la causa principale dell’oscurità del nostro cielo.

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La più lontana galassia è stata chiamata con la sigla z8_GND_5296. Dista da noi 13,1 miliardi di anni luce. Essa appartiene ad un universo “bambino”, appena uscito dal Big Bang.Ci

Ci sono anche altre cause che ne accentuano l’oscurità, cause minori e comunque legate all’evoluzione dell’Universo.

Se il numero limitato di stelle che possiamo osservare dipente dal fatto che l’Universo ha avuto una nascita, si potrebbe immaginare che fra alcune migliaia di miliardi di anni il cielo si riempirà di numerose altre stelle, dato che il suo raggio osservativo aumenta con il passare del tempo. Non sarà più buio e risplenderà di luce rossa. Ma non è così perché le stelle hanno una “durata” limitata, un ciclo vitale: esse nascono e muoiono. Perciò non possiamo vedere tutte le stelle che si sono formate nell’Universo ma solo quelle “ancora in vita”.

Una seconda causa, molto più importante, ha a che fare con le conseguenze dell’espansione dell’Universo. L’effetto che ci interessa qui è chiamato spostamento verso il rosso (o meglio redshift cosmologico).(*) L’espansione dell’Universo è in realtà un’espansione dello spazio. L’espansione dello spazio ha “stirato” anche la lunghezza d’onda della luce nel corso del suo lungo viaggio.

Se lo spazio si espande, aumenta anche la lunghezza d'onda della radiazione elettromagnetica. (da hhh)

L’onda disegnata sull’elastico si dilata se l’elastico viene allungato. Se lo spazio si espande, aumenta anche la lunghezza d’onda del fotone nel corso della sua “vita”.
(Dmitri Pogosyan, Expanding Universe, Lecture 30)

Più lontane sono le galassie e  più esse ci appaiono di colore rosso. Il colore rosso corrisponde alle frequenze più basse e, quindi meno energetiche, della radiazione visibile. In conclusione, l’intensità della luce proveniente dalle galassie è più debole di quanto ci dobbiamo aspettare a causa della sola diminuzione in ragione del quadrato della distanza, ed è tanto più debole quanto più lontane sono le galassie.

Un esempio limite: la radiazione “fossile” che proviene dalle caldissime fasi iniziali della nascita dell’universo, nota come radiazione cosmica di fondo, è rilevata solo dai radiotelescopi sulla frequenza delle microonde (una  frequenza ancora minore dell’infrarosso). Sebbene la radiazione cosmica di fondo rappresenti ben il 99% della quantità totale della radiazione elettromagnetica dell’universo (solo l’1% dei fotoni dell’universo proviene dalle stelle!), è invisibile al nostro occhio. Se la nostra retina fosse sensibile a queste microonde, il cielo notturno ci apparirebbe illuminato a giorno dal “flash residuo” del Big Bang.

A causa del redshift cosmologico gli astronomi  sono costretti ad utilizzare telescopi sensibili all’infrarosso quando vogliono osservare le più lontane galassie.

E’ sorprendente pensare che da centinaia di migliaia di anni, da quando il nostro cervello possiede una consapevolezza in grado di porre domande, abbiamo guardato il cielo notturno senza renderci conto di avere davanti agli occhi la prova concreta del Big Bang.

(*) Il redshift

Effetto Doppler (da www.astronomia.com)

Effetto Doppler delle onde sonore (da www.astronomia.com)

Lo spostamento verso il rosso (redshift) è un fenomeno ondulatorio che può essere spiegato con l’effetto Doppler. Il suono della sirena dell’ambulanza è più acuto quando l’ambulanza si avvicina a noi e più grave quando si allontana. Nel caso della luce avviene qualcosa di simile: se una sorgente si avvicina a noi la sua colorazione ci appare spostata verso il blu (blueshift), mentre se si allontana ci appare più rossastra (redshift).

Lo spostamento verso il rosso che si osserva nelle galassie (redshift cosmologico), è dovuto invece all’espansione dello spazio stesso, espansione che “dilata” la lunghezza d’onda della radiazione. Quanto più a lungo è durato il viaggio della luce tra la sorgente e noi, tanto maggiore è stato l’effetto dell’espansione dello spazio sulla “dilatazione” della sua lunghezza d’onda.