Il cappello di paglia

Quando ai primi di luglio il caldo comincia a farsi sentire e l’erba era già bella alta nei prati, alla fiera di Dont si comperavano falci e cappelli di paglia.

Ci andammo con la mamma e la sorella e si camminava felici sulla stradone bianco, ansiosi e turbolenti: “Mamma comprami questo, mamma comprami quello…”

“E compra, compra,” ribatteva la buona mamma, ma dopo ci accontentava sempre. Non è che le pretese fossero esagerate; a me un temperino ed un bel cappellino di paglia della forma di quello degli uomini; ma quando fu la volta di mia sorella cominciarono i guai. Lei si era impuntata nel volere un cappellino rosso, della foggia delle signorine che allora era chiamato “alla Bebè” come portavano i capelli.

“Ma tu sei una bambina” ripeteva la mamma “non ti sta bene quel cappellino!”

Niente! Lei a piangere che voleva quello fin che la mamma perse la pazienza (e sì che ne aveva tanta) e, preso il cappellino glielo piantò in testa che quasi le copriva anche gli occhi.

Il ritorno fu in corriera fino a Fusine e poi a piedi per il Carpè, in silenzio, le bizze della sorella ci avevano rovinato la giornata.

Ma al pomeriggio l’umore cambiò per le peripezie del Fino.

Aveva l’Andrea, alla fiera, comperato due cappelli di paglia ai due figli maggiori; il minore era ancora troppo piccolo. Quando arrivò a casa il Fino prese uno dei due cappelli e con la sua solita veemenza, fece per infilarselo in testa, se non che, essendo un po’ stretto, rimase con le tese in mano e il resto in cima al suo notevole testone.

Allora, non contento, tentò di prendere quello della sorella Albina che si pavoneggiava col suo cappello e la treccia di capelli corvini che usciva dietro, sotto la tesa: ma ecco che nel tirarlo si sfilò tutto come un gomitolo di spago.

Più tardi si sentiva “l’urlo di Tarzan” del Fino nel porticato della bifora: le aveva prese dal padre indignato ed arrabbiano per le due lire spese inutilmente.

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